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Esprimere l'inespresso: emozioni e linguaggio

Sabato 18 maggio in quella che, qualche anno fa, mi sembrava – come scrissi – la casa di Pippi Calzelunghe, si è tenuto il 30° seminario internazionale per insegnanti di lingua. Quest’anno abbiamo deciso, pressoché univocamente, il filo conduttore dei nostri laboratori: le emozioni e la possibilità di esprimere l’inespresso.

Ma questo, ovviamente, si porta dietro tutto un carico didattico non indifferente: in che modo accendere l’emozione dei nostri studenti? E perché è così importante, soprattutto oggi, farlo quotidianamente? Ce lo siamo domandato lungamente e ne abbiamo tratto conclusioni, ancora una volta, univoche.

In che modo? Creando un ambiente classe favorevole e accogliente, che si prenda cura di tutti e del singolo. E per fare questo, ci siamo detti, è urgente (nel senso classico del termine) fare leva su quell’inespresso che è dentro ognuno di noi. Non importa da dove vieni, cosa hai vissuto, l’età che ti porti addosso, la strada che hai battuto o quella che, faticosamente, stai battendo.

Perché? Perché solo così, con una didattica che punti ai sentimenti forti e veri si può imparare bene e a lungo, soltanto così, leggendo le emozioni degli altri, si impara qualcosa da e per sé stessi. Si tratta, per sommi capi, di quella Teoria della Mente (ToM) secondo la quale gli esseri umani sono capaci (a partire dai 3/5 anni di età) di comprendere che altre persone hanno pensieri, emozioni, desideri e intenzioni diversi, o al contrario similissimi, ai propri. Insomma, è la capacità di “mettersi nei panni” dell’altro. Allora, se applichiamo tutto questo alla didattica, l’emozione ha una valenza enorme: non è solo imparare una lingua nel modo più asettico e “tradizionale” del termine, ma è calarsi in essa anche, e soprattutto, tramite le proprie e altrui emozioni.

Alla DILIT vogliamo vedere studenti emozionati, felici di imparare una lingua meravigliosa come è l’italiano. E sabato ci siamo emozionati anche noi, come facciamo ogni giorno. Ricordo la mia prima settimana: all’inizio ho davvero temuto che dall’altra parte non avrei più imparato nulla. La verità è che questa prospettiva, seppure defilata e confusa, mi ha insegnato molto più di quanto potessi lontanamente immaginare.

Una studentessa di qualche tempo fa mi rivelò di avere un desiderio: in un mese, parlare almeno un po’ di italiano. E alla fine di quel mese ricordo benissimo come era il suo italiano: emozionato e vero. In quel momento, pensai, sentivo di aver fatto qualcosa di più di averle trasmesso qualche regola grammaticale. Perché? Perché P. era felice.

Sabato, dal nostro seminario ho imparato e compreso, ancora una volta quanto solo l’emozione sia la base solida, lo zoccolo duro, dell’apprendimento: l’emozione crea in noi un sentimento e la mente umana fa il resto, nella sua perfetta semplicità. E così quel sentimento, che di giorno in giorno prende forma, si fa motivazione, del singolo e del gruppo. Mentre accoglievamo insegnanti da tutto il mondo, sabato, ci siamo emozionati anche noi ed è così che ho ripensato proprio a P.

“È una condizione”, così per uno strano scherzo del destino rispose lei quando, durante il nostro aperitivo, le chiesi cosa fosse, per lei, l’amore: ho sorriso sommessamente e ho sorseggiato il mio spritz. Una condizione, “…D’esistenza” - ho aggiunto io - che è anche l’unica nozione di matematica che ho deciso di ricordare. È certo che i nostri occhi in quell’istante parlavano la stessa identica lingua.

E se fosse proprio questa la chiave? Speriamo di avervelo mostrato almeno un po’, sabato.

Il processo di apprendimento è lungo quanto accidentato, ma è nelle curve che si impara davvero, nelle asperità che si crea la squadra e nella forza di essa che, alla fine, si arriva. Non importa dove, ognuno alla propria unica e personalissima destinazione ed ognuno con i suoi sacrosanti tempi. Perché imparare non riguarda solo il cervello, ma anche il corpo e il movimento che quest’ultimo può fare: solo così l’apprendimento è collegato all’esperienza diretta dello studente, svincolandosi dal beneamato inchiostro nero su carta bianca. Un sapere radicato nel corpo è un sapere duraturo perché anche quando la memoria ci giocherà brutti scherzi, avremo comunque il ricordo di quell’emozione, di quel tenderci (metaforicamente, ma non troppo) la mano.

In fondo l’essere umano lo sa da sempre. Almeno dai tempi di Aristotele, che scriveva così: “Ciò che dobbiamo imparare a fare, lo impariamo facendolo, ma lo ricordiamo se ci ha emozionato”. E cosa, più di una lingua, si fa? E poi, ancora, Rita Levi-Montalcini che diceva che “Quando un insegnante riesce a creare emozione, genera conoscenza”.

E tutto questo, speriamo sia così, si conclude qui, tra le viette caotiche dei dintorni della stazione Termini, dove noi, ogni giorno, ci emozioniamo nell’emozionare.

Martina D'Errico

 

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